Riflessioni di Mar(z/c)o

 

Non amo le ricorrenze.

Festeggio a malapena il mio compleanno e mi “sforzo” di fare gli auguri quando sono invitato a farlo ai compleanni altrui. Non è insofferenza la mia. Non sono di quelli che si tagliano le vene per sport, tantomeno un festaiolo. Rifuggo semplicemente gli eccessi, in generale.

Temo di essere fin troppo moderato, adesso, dopo un’adolescenza da estremista di qualsiasi concetto, ma di capirne la vera essenza. Il senso stretto di moderazione. Se cerco sul dizionario dei sinonimi questa parola, infatti, tra le diverse voci rientrano due in particolare che più si addicono al mio personale concetto di moderazione: “autocontrollo” ed “equilibrio”.

Dove c’è estremizzazione c’è sempre il male, penso io.

 

Ogni estremo è quasi parodia di se stesso e del concetto che va ad esasperare.

 

Io non voglio essere la mia parodia. Quello che scrivo non deve esserlo. Quello che penso ancora meno: lo vedo come uno “psicoreato” orwelliano.

Allora cerco il controllo, cerco l’equilibrio… come tutti, a modo mio. Dinanzi a certe situazioni mi trovo, tuttavia, ancora molto combattuto.

Non amo le ricorrenze, questo è vero ed è risaputo da chi mi conosce bene. Meno noto è che, nonostante tutto, non le disdegno. Cercherò d’essere più chiaro, un esempio basterà: l’anno scorso mi è stata fatta l’unica festa di compleanno a sorpresa mai riuscita fino ad oggi nella mia vita. La mia reazione è stata quasi infantile. Inaspettata, specialmente da me stesso. Le emozioni provate, il senso di allegria nel vedere le loro facce (amici e parenti invitati dalla macchinatrice dell’evento, mia moglie), a sentirmi così accolto nella mia stessa casa come mai prima. Avevano imbandito una tavola di stuzzichini e focacce senza glutine e mi regalarono doni perfetti per me (libri, cos’altro?). Quel giorno di un anno esatto fa (7 marzo) compivo ventotto anni, fui immensamente contento della festa a sorpresa, eppure chiesi a tutti di non riproporre più la cosa. Perché? Perché non amo le ricorrenze -in generale-, ma peggio ancora non amo essere io stesso l’oggetto della celebrazione. Non che non ami stare “al centro dell’attenzione”: sono pochi i momenti più belli della presentazione di un proprio libro. Essere “il festeggiato” per un compleanno o altro, però, in parte mi imbarazza, in parte mi rende, ebbene sì, “troppo felice”.

Non sono un depresso che rifugge i bei momenti, lo ripeto. Sono solo troppo orgoglioso a volte, troppo chiuso altre. Chiuso verso me stesso, verso i miei sentimenti. Provarne troppi e tutti insieme, seppur belli, mi manda in “tilt”. Per questo evito le mie feste, ma anche quelle altrui: in quei casi non mi sento mai all’altezza della situazione, peggio che peggio nei casi in cui ad essere festeggiate devono essere le persone più importanti della mia esistenza. Il massimo disagio lo provo una volta l’anno, cade il ventidue di settembre: data di compleanno di mia moglie. La questione non è solo il semplice “cosa regalarle”, va molto oltre questo. Vorrei esserne all’altezza, ma non ci riesco. Finisco per ruzzolare nella paranoia del non riuscire a darle il meglio, anche se lei, al contrario, apprezza moltissimo anche i soli auguri, figurarsi un pensiero.

Se parliamo del natale o altre ricorrenze che vedono interi paesi coinvolti sotto un unico spirito celebrativo, poi, il mio “IO-anti-festeggiamenti” prende ancor più piede in me. Non sopporto le feste, so di essere considerabile un mostro per questo, peggio ancora “un estremista”. È proprio pensando a questo, temendo questo: l’essere così considerato, che ho cominciato a lavorarci su, ad essere in pratica “più sincero con me stesso”. In fondo non odio così tanto il natale, forse lo vivo solo male. Perché? Perché ne vedo solo il lato negativo: gli eccessi, il consumo forzato, l’esagerazione di una società ricca eppure povera, di un mondo pieno di debiti, ma con l’auto di lusso e tante facce sporche di petrolio a morire di stenti.

Allora mi lascio sopraffare dal “lato oscuro” del rosso natale. È nero quel lato, come il petrolio e le facce sfruttate di quegli uomini così simili agli zombie. Mi deprimo, mi rattristo. Non fa per me. Forse non fa per i più sensibili e per quella gente che non crede alle favole, meno che meno a quella che ci vede “tutti più buoni” giusto un paio di giorni l’anno.

“Ogni estremo è quasi parodia di se stesso e del concetto che va ad esasperare”. Non è forse così?

Oggi ho espressamente chiesto di non celebrare il mio compleanno, almeno non eccessivamente (mi sto addolcendo?). In famiglia abbiamo la tradizionale pizza e la torta sgangherata, ma piena d’amore e buone intenzioni, di mia madre. Mia moglie me l’ha fatta anticipatamente, sotto mia richiesta. Poi s’è ingelosita per tre tortini alla fragola che mi hanno donato due amiche pasticcere amatoriali del senza-glutine. Saranno tradizioni simboliche e forse senza senso. Festeggiamo un anno in più verso la tomba, dico io. Qualcuno, molto meno schopenhaueriano di me, mi ha fatto vedere il bicchiere mezzo pieno e devo dire che, come spesso accade quando un positivista “realista” apre bocca (o scrive), mi ha fatto del bene. “Il compleanno”, dice lui, “è festeggiare la vita, non l’avvicinamento alla morte. È stare insieme e fare foto. Mangiare un pezzo di torta pieno di zuccheri semplici e dire ‘fanculo la dieta’. È ricordare la nascita e contare quanto si è cresciuti. È il capodanno personale”.

Il capodanno personale.

Non sono scaramantico, ma mi piace pensare il contrario. Qualcosa fatta o vissuta a capodanno, si dice nel mito popolare, sarà compiuta e vissuta per tutto il resto dei trecentosessantaquattro giorni di quell’anno. Ho provato spesso a mettere in pratica questa leggenda, ma con scarso successo. Poi, proprio oggi, ci ho pensato su. Forse sbagliavo ad applicare quella formula. Forse per “capodanno” s’intende l’inizio del proprio di anno. Allora oggi ho amato la mia donna nel letto con ardore. Ho avuto cura della nostra pitbull di quattro mesi. Ho mangiato uova a colazione (lo ha sempre fatto un’anziana, lo ha detto lei in persona in un’intervista alla tv, aveva centotre anni e se li portava benissimo). Ho letto qualche rigo di uno Stephen King. Ho letto la lettera di auguri, sempre molto dolce, di mia moglie e sono sceso qui, in studio, ad aprire il foglio digitale e a scrivere questi miei pensieri fluttuanti. Sono parole utili e inutili, dipende dal lettore, oltre che dall’autore. A me piace l’idea che possano essere spunto per una riflessione, anche un semplice “ritrovarsi” in esse, in ciò che esprimono. Per questo, tra la stesura di un romanzo e un editing, tra le ripetizioni ai miei ragazzi e un film, tra la palestra e le coccole alla cagnolina, tra un videogioco e un lavoro saltuario, tra lo studio e la lettura di piacere, tra Tokhys e Il Nostro Mondo, tra i fratelli e gli amici, tra i mecha e i pistoleri, tra l’amore e il sesso, tra il futuristico e il retrò, tra un nuovo bando pubblico e un curriculum inviato a qualche hotel o parco nazionale, tra il dire e il fare, tra me, te e voi: continuo a scrivere e a farlo per bisogno, bisogno vero.

Raccontare e raccontarsi. Raccontare è raccontarsi.

Forse mi riesce più facile scrivere di altri. Di persone fantastiche, ma vere, come il Ramingo o di eroi di mondi da me creati, ma spesso ispirati alla realtà di tutti i giorni. Parlare di me è come festeggiare il mio compleanno. Oggi ho voluto avere il coraggio di farlo, almeno un po’ e devo ringraziare due persone per questo. La prima è mia moglie, con la sua lettera nella quale quasi si scusa per gli auguri perché, cito, “[…] oggi per te è un giorno come tanti, non ami essere festeggiato, non ami le ricorrenze […]”, frase che mi ha colpito e mi ha fatto sentire una vera merda, passatemi il termine. La seconda persona che mi ha spinto, anch’egli indirettamente, a buttar giù questo pensiero sulle ricorrenze e i festeggiamenti, è stato Attilio Fortini, della “Temperino Rosso Edizioni” e della Rivista online “Culture Creative”, che non so perché, continuo a leggere con la pronuncia inglese. È un po’ di tempo che Attilio ha fiducia nel mio scrivere, nel modo in cui esprimo i concetti che attraversano prima la mia mente e poi le mie dita sulla tastiera, avendomi dato un piccolo spazio per essere letto, in questa mia insolita chiave, anche sulla sua rivista digitale. Ho pensato, una volta letta la lettera di auguri di mia moglie: perché no, forse su “C.C.” qualche rigo a riguardo potrebbe starci. Se state leggendo questa riflessione, la riflessione di un neo-ventinovenne nato nel mese più strano dell’anno, allora vorrà dire che Attilio, ancora una volta, ha avuto la gentilezza e la cura di avere fiducia in me, nel mio piccolo mondo e nella mia visione del tutto.

Scrivere e leggere sono le più antiche eppure le più alte forme d’espressione del pensiero dell’uomo. È idea e concetto che permane. Ciò che è scritto non si può dimenticare, scripta manent, no?

Il mio vuole essere un invito a tutti, ma proprio tutti, a farlo: scrivete, anche male, anche sbagliando e confezionando catastrofi grammaticali ed ortografiche, ma fatelo! Non si scrive solo per essere autori. Scrivete per voi stessi, prima che per gli altri. Scrivete per non dimenticare le emozioni di un evento importante, cose difficili da registrare persino in una fotografia. Scrivete per sfogo, scrivete per protesta, scrivete per divertimento, scrivete per amore o per odio, o come me, per bisogno, ma scrivete.

Raccontate e raccontatevi, c’è di sicuro chi vorrà leggervi.

C’è sempre almeno un lettore per ogni scrittore.

Marco Sasso

Marco Sasso nasce a Trani, una splendente cittadina sul mare. Studia nella sua regione, si sposa presto (all’età di ventuno anni) e inizia a girare l’Europa con sua moglie, lavorando e vivendo in diverse parti della Spagna, Germania, Svizzera e in tutta Italia. Parla, infatti, quattro lingue fluentemente. La passione per la scrittura e la narrativa lo ha sempre accompagnato sin dall’infanzia, quando inventava storie per far divertire il fratello minore. A scuola eccelle nei “temi di Italiano”, ma inizia a scrivere per conto suo all’età di sedici anni, con un romanzo a tema medievale d’amore e guerra. Nel corso del tempo legge moltissima narrativa, sia classica che moderna. Il suo font preferito è il “calibri”. Si appassiona alla filosofia e comincia a scrivere romanzi che vanno dal distopico fantascientifico al romanzo d’amore (sempre con elementi fantastici). Pratica arti marziali e diventa un istruttore di “difesa personale”, unendo le sue due più grandi passioni in un binomio che lui chiama “la penna e il pugno”. Oggi vive a Trani, con sua moglie, ha vent’otto anni e si occupa di narrativa e cinema indipendente.

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