Scatoloni commerciali in continua crescita in orizzontale e in verticale

 

La denominazione di centro commerciale sembra voler ricreare un “fuori luogo” che precedentemente rientrava in uno spazio in cui nulla faceva presagire al divenire di questa “funzione” di suk chiuso, contraddistinto dal suk solitamente ubicato all’aperto.

Codesti scatoloni commerciali sorgono da e in nulle part, dove l’intenzionalità appare alquanto ambigua: vengono eretti per infastidire l’ambiente circostante rendendolo ancor più a côté di un altrove aumentando così in marginalità, oppure è l’ambiente circostante che richiede inesorabilmente questa rottura perché vi si possa scovare una propria ragione di esistere?

Grandi e mastodontici ammassi di insensibilità e ottusità architettonica, dove gli innumerevoli e svariati saperi umani acquisiti in anni e anni di tribolate esperienza e di esperimenti scientifici vengono accantonati per lasciare il posto alla fretta, per poter riuscire (forse!) a imprigionare tempo, spazio e natura per asservirli ai nostri parametri di utilizzo forzato.

E sfortunatamente questi scatoloni commerciali, a loro volta contengono altri cubi colmi di ogni cosa immaginabile e possibile, interscambiabili fra loro e immutabili, ed è la merce esposta che crea l’ambiente e non il suo contrario, in una sorta di spersonalizzazione e di omologazione costante. Colui o colei che passa subisce una sorta di “ipnosi”, in cui il contatto relazionale è dato dall’oggetto e non dal soggetto.

Tutto si concentra esclusivamente sulla superficie economica in cui, anche la/il commessa/o sono semplici venditori di cose, la relazione è mercificata, fini e mezzi sono parte di un unico obiettivo: “Vendere, vendere, vendere” per incrementare il capitale umano mondiale di pochi.

Le persone poi che “vivono” le proprie giornate mese dopo mese, anno dopo anno all’interno di questi contenitori commerciali, in cui vengono ricreate tutte le caratteristiche di un fuori che è dentro, mutano la percezione per esempio dello scorrere del giorno, in quanto fin dalle prime luci dell’alba fino a notte inoltrata le luci artificiali sostituiscono l’astro solare. Ma per ovviare a questo “disagio” qualcuno ha pensato che delle luminose ed enormi vetrate potessero essere una soluzione possibile per non isolarsi troppo dal pianeta Terra, quello in cui tutti noi umani amiamo abitare.

Poi non dobbiamo scordare che possono anche essere percepiti, ma meglio sarebbe dire impiegati, come una specie di casa d’accoglienza per chi, in maniera più o meno accogliente, un tetto a volte non lo ha sopra la propria testa, ed è in cerca di un dove poter respirare senza troppi timori.

Mentre per i fruitori frettolosi che percorrono più o meno velocemente i corridoi che paiono corsie di interminabili e asettiche autostrade, tutti inequivocabilmente uguali e un po’ tristi nella loro desolazione, passano senza esserne coinvolti, estraniati, come se loro stessi guardassero da una finestra altri che camminano e non sanno dove si stanno dirigendo.

E chissà cosa accadrà quando fra mille anni, forse anche meno (direte voi), qualcuno per sbaglio o per studi archeologi incapperà in qualcosa di questi sopravvissuti resti (dei contenitori commerciali), quale sarà la sua possibile reazione, ma soprattutto potrà riuscire ad immaginare a quale uso erano adibite quelle, che mi piace pensare, definirà come cattedrali? Forse hanno poca importanza per noi le risposte che quelle persone “troveranno”, è un futuro talmente lontano che non ci permetterà certamente di interloquire con loro, ma qualcosa possiamo ancora fare. Ed è ora in questo presente attingendo da quanto già è stato fatto, detto e scritto che potremmo dare origine a un mondo di cose in cui l’uomo creatore possa ritrovare dignitosamente un luogo dove poterlo essere nella sua totalità e senza esclusione.

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